lunedì 28 gennaio 2019

28/01/2019 #CIPASSALAFAME

Essere testimoni dei cambiamenti che la storia propone, ai quali l'umanità si adatta a volte con fervore, altre con indolenza, come un bambino che strascina i piedi convinto che il dentista sia una tortura, ma consapevole di non poterlo evitare, è affascinante e lascia sicuramente dietro sé una scia di riflessioni, pensieri, profondità che difficilmente possono essere spazzate via ed archiviate come ordinarie.

Una delle persone che più stimo, spesso mi ricorda come la sconvolga il vedere la maggior parte degli individui rimanere interdetti di fronte al mutamento, davanti all'evoluzione e come sia assurdo che non riescano a rendersi conto che "la Storia è sempre la stessa", che si ripete: cambia lo scenario, cambiano i protagonisti, si modificano le interazioni o i metodi o gli stili, ma la trama è la medesima. Così sorge spontaneo e naturale domandarsi quante altre volte dovrà succedere, in quanti anni ancora dovremo rivivere atti identici prima di capirlo, prima di adattarci.


Per adattamento intendo "l'insieme dei processi che producono mutamento negli aspetti metabolici, fisiologici e comportamentali che consente di dominare la realtà", di conformarsi al - e mantenersi nel - ambiente in cui si vive.
L'adattamento e quindi l'evoluzione, non sono un processo passivo ed individuale, bensì attivo, transgenerazionale e culturale, basato sullo scambio più o meno conscio di abilità e conoscenze sperimentate dall'umanità stessa. Questo meccanismo che non cessa mai di ruotare e lavorare è strettamente collegato e stimolato dall'ambito esterno in cui è inserito. Lo sviluppo che ne consegue è quindi una sorta di summa dell'esigenze che ci si propongono, in quanto esseri umani, in quanto parte di un sistema ampio di individui conviventi a contatto con la natura in un loop continuo ed incessante di elaborazione; ciò che ci rende quello che siamo è necessariamente connesso al contesto in cui siamo incastrati. In questo senso la società risulta essere progetto e progettista al tempo stesso: l'uomo si deve adattare all'ambiente che lo circonda per sopravvivere, costituito dalla vita, da altri esseri umani con diverse urgenze, e questo non può che far di lui uno dei cooperatori delle dinamiche di mutamento. 

Eppure ancora oggi questo concetto sembra esserci completamente estraneo, o quasi. Difficilmente riusciamo a concepire la dissimile ma sottilmente uguale condizione che ci accomuna. Difficilmente riusciamo a renderci conto che il processo continua, va avanti e per forza da un momento all'altro ne verremo travolti; continuiamo ad opporci, con tutte le forze, gridando con più fiato riusciamo a recuperare, lottando concretamente, a mani nude se necessario, pur di intralciare, impedire, ostruire un movimento imprescindibile. 

Ci indigniamo e rifiutiamo, condannandoli come DIS-UMANI, atti che hanno piagato la storia con dolore straziante: guerre, discriminazioni, disuguaglianze, schiavismo, genocidi, torture, totalitarismi, oppressione, intolleranza, indifferenza, ingiustizie, ferite laceranti che sotto forme differenti si sono presentate e ripresentate, e che, al contrario di quello che crediamo, vivono ancora apertamente la nostra vita, passandoci appena accanto, o abbattendoci in pieno.

Così corriamo nei cinema ad assistere a spettaccoli raccapriccianti di violenza, di razzismo, di odio pensando a quanto siano assurdi. Ci sembrano fatti accaduti così lontani da noi che non possono toccarci in alcun modo. Usciamo della sala, sconvolti, pesti, graffiati, e soffochiamo lacrime pensando: "povera gente, cos'hanno dovuto passare, com'è possibile che sia accaduto davvero.." e mentre ci immaginiamo tutti come Madre Teresa di Calcutta, lanciamo un'occhiataccia meschina e manesca al ragazzo indiano che ci offre una rosa. Il giorno dopo, andando al supermercato, guarderemo con diffidenza l'uomo senegalese che prende il pane prima di noi, assicurandoci quasi schifati, che si infili bene il guanto prima di toccarlo, premura che non riserviamo a noi stessi. E poco dopo, entrando in posta, ci terremo a debita distanza dalla signora col burka e ci domanderemo come può avere un conto corrente, dei soldi...E, la sera, prendendo un gelato in centro ci si rivolterà lo stomaco nel vedere due ragazzi che si tengono per mano, passeggiando. E di fronte a torture inumane perpetue nel tempo, a sofferenze giornaliere proprio davanti ai nostri occhi - e ai nostri porti - gireremo la faccia dall'altra parte. 



Assistiamo quotidianamente a fenomeni che minano in maniera significativa l'umanità e la civiltà che ci caratterizza. Episodi di violenza inaudita, di distruzione, non rispetto della propria ed altrui vita. Ho spesso la sensazione che tutto debba precipitare da un momento all’altro, senza possibilità di risalita, senza uno spiraglio alla fine del tunnel, senza una possibile via di fuga: ogni giorno i media ci bombardano con notizie di attentati terroristici, violenti, minacciosi e terrificanti, perché in fondo il loro mestiere lo sanno fare bene. 

Tutto questo mi provoca una cascata intensa di ansie e preoccupazioni, e penso; penso che per trovare una soluzione, prima di tutto bisogna trovare il problema, capirne la radice, coglierne la vera origine. Perché ragazzi che vivono in paesi occidentali ormai da molti anni, che addirittura sono immigrati di seconda o terza generazione, che sono nati in Francia, Germania, Italia, che hanno partecipato alla vita comunitaria, che hanno avuto amicizie, amori, vite come molti altri adolescenti o giovani, perché ad un certo punto sentono il bisogno, la necessità, il desiderio di ferire quella che dovrebbe essere la loro terra, il loro paese, la loro città? Penso e ripenso, e mi viene in mente che forse qualcosa ha fallito, che forse non è andato tutto per il verso giusto, che abbiamo sbagliato ad un certo punto ed abbiamo compromesso la riuscita.

Forse per questi ragazzi non è la loro terra, il loro paese, la loro città, forse non si sono sentiti inclusi, parte, cooperatori di un sistema unico.



La questione che più mi tocca nel profondo, che mi fa contorcere la mente è il domandarmi perché non è un fatto di primaria urgenza; perché il primo punto all’ordine del giorno di ogni governo non è domandarsi cosa nel sistema ha fallito, quale parte non ha funzionato come si deve, cosa ha generato una reazione tale. Mettersi in discussione, aprirsi ad un confronto ad un’analisi non sembra essere una soluzione, l’unica reazione possibile, l’unica reazione voluta è quella violenta, di guerra, di impedimenti, di leggi e prese di posizione fatte per creare e generare ancora più odio e discriminazione.

Ho trent'anni e sono spaventata dal futuro.


Questioni minute, di ogni giorno, liti, pestaggi, insulti, razzismo, addirittura venerazione alla luce del sole di ciò che è proibito dalla legge – apologia di fascismo – opposizione con ogni forza possibile alla democrazia e alla libertà di espressione: spesso mi domando perché dobbiamo necessariamente impedire a qualcuno di essere felice o di avere la felicità che abbiamo noi, senza un motivo apparente; come posso giustificare a me stesso e alla mia coscienza il fatto che io posso essere felice e sentirmi libero di essere come mi sento ma che questo non deve e non può essere condiviso da chi non è come me? Cosa succederebbe se domani si invertisse la situazione?

 
Questioni enormi, globali, guerre, distruzione, un pianeta che ci sentiamo in diritto di poter annientare ed una superficialità generale che ci coinvolge tutti.

 
Per tutto questo e per molto altro oggi mi sento di fare qualcosa, una piccola cosa, ma che determina una presa di posizione e per una volta, concretamente, il tener fermo lo sguardo su quello che sta accadendo davanti ai miei occhi. 
 
 

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